
Ma cosa intendiamo quando parliamo di Core Energetica?
La Core Energetica è un approccio che si basa sul connubio tra corpo, mente, emozioni e volontà, e aiuta le persone a connettersi con il proprio “nucleo”, il centro di energia vitale che risiede in ciascuno di noi. Attraverso il superamento di blocchi emotivi, paure, tensioni e l’utilizzo del corpo, la Core Energetica mira a liberare il nostro potere interiore, favorendo un’esistenza più piena e armoniosa.
Lo scopo della Core Energetica è quindi quello di entrare in contatto con la nostra parte Ombra, quella parte di noi che ci incattivisce senza che, a livello conscio, si riesca a risalire al perché.
Fondata da John Pierrakos, allievo di Wilhelm Reich e cofondatore della Bioenergetica insieme ad Alexander Lowen, la Core Energetica si basa sull’idea che il corpo custodisca all’interno di sé memorie emotive e blocchi energetici. Attraverso esercizi fisici, espressione emotiva e consapevolezza corporea, questo metodo mira a sciogliere tensioni profonde e a liberare il potenziale interiore, favorendo una vita più autentica e armoniosa.

Durante il mio tirocinio abilitante, è stata dedicata una giornata alla Core Energetica presso l'Istituto Res. A guidarci nel percorso di quella giornata è stato il Dott. Nicola Sensale, psicologo, psicoterapeuta e allievo diretto di John Pierrakos.
L’incontro è stato introdotto da una parte teorica sul metodo, incentrata sull’importanza dell’integrazione corpo-mente e sull’approccio all’ombra personale. È stato subito evidente come la Core Energetica non sia solo un lavoro fisico, ma un processo profondo che tocca emozioni, resistenze e dinamiche relazionali.
Il tema della giornata era: "Non si può amare se non si accettano le proprie parti negative", introducendo così il concetto di Ombra. L'ombra, da quanto introdotto dal nostro conduttore, è una componente fondamentale del nostro essere, una parte della nostra personalità che non può essere eliminata o ignorata. Essa rappresenta una forza vitale, ricca di energia, ma che necessita di una guida consapevole, poiché spesso ci spinge verso comportamenti distruttivi. Non possiamo pensare di essere esenti da questa dimensione oscura, né tantomeno proiettarla sugli altri.

Il conduttore, dopo una prima fase introduttiva e di presentazione – anche tra i membri –, ha incoraggiato i presenti a intraprendere un'attività iniziale di riscaldamento attraverso l'esplorazione dello spazio, focalizzandosi sul respiro, sul corpo e sui piedi, con l'intento di aiutare al decentramento e all’immersione nell'attività.
Successivamente, ha invitato i partecipanti a interagire con gli altri presenti, sempre muovendosi nello spazio: prima ha chiesto di camminare, poi di fermarsi e incrociare reciprocamente lo sguardo con chi si presentava davanti, mantenendo il contatto visivo per qualche secondo; poi, ha chiesto di fermarsi, incrociare lo sguardo e fare contatto con un dito; successivamente, guardarsi negli occhi e sfiorarsi le mani; infine, guardarsi negli occhi e tenersi le mani per qualche secondo.

Quest'attività è stata per me emotivamente insolita: mi è parso di riuscire a connettermi con altri attraverso lo sguardo, mentre con altri parevo provare un forte disagio, come se si creasse una forzata intimità che non riuscivo d accogliere. Tuttavia, procedevo, rimanendo in quella situazione di disagio, accogliendo il disagio stesso e portando avanti l'attività, pur non essendo completamente immersa, ma riconoscendo comunque il valore dell'esperienza e consapevole che fosse funzionale al resto dell'attività.
In seguito, sono stati proposti movimenti che prevedevano l’utilizzo della voce, anche con toni molto alti. Durante questa fase sono emerse alcune mie difficoltà, che non ho gradito contrastare rifiutandomi categoricamente di vocalizzare, ma che ho preferito accompagnare, vocalizzando quando me lo sentivo e rispettando i momenti in cui mi era fisicamente impossibile farlo. Alzare la voce e far percepire la propria presenza anche a livello vocale si è rivelato un aspetto particolarmente sfidante per alcuni partecipanti, tra cui anche me.

È stato affascinante osservare le dinamiche all'interno del gruppo: alcuni membri erano completamente immersi nell'attività e la loro vocalizzazione si manifestava con naturalezza, mentre altri, tra cui la sottoscritta, presentavano un blocco. Ho notato in particolare due membri che non vocalizzavano, e nella dinamica di gruppo ho percepito l'effetto rassicurante di questo blocco condiviso.
La voce è stata poi nuovamente utilizzata in combinazione con differenti movimenti: i partecipanti, sotto la conduzione del terapeuta, hanno assunto varie posizioni simili a quelle dello yoga (posizione del gatto, della mucca, del bambino, del cobra). In queste posizioni, è stato richiesto di utilizzare la voce per rilasciare energia attraverso forti suoni. Durante le attività, si è manifestato per alcuni un conflitto interiore: da un lato, la volontà di vocalizzare e di esprimere la propria presenza con la voce, ma dall'altro, la difficoltà fisica di farlo. Questo conflitto mi ha fatto riflettere su una possibile resistenza psicologica profonda, che si è manifestata a livello corporeo.

La voce, infatti, è un potente strumento di espressione del sé, e non riuscire a emetterla potrebbe riflettere una difficoltà ad affermare la propria autenticità o una paura inconscia di esporsi in modo diretto e visibile. Ho ipotizzato che questo blocco potesse essere legato a esperienze passate in cui la propria espressione vocale è stata inibita o trascurata, creando una disconnessione tra le emozioni e la capacità di manifestarle esternamente.
Sono state poi proposte due attività in coppia. La prima consisteva nel lavorare con una persona della stessa stazza fisica. L’attività prevedeva che un partecipante desse la schiena all'altro, l'incrociarsi delle loro braccia e, a turno, uno dei due doveva salire sulla schiena dell’altro piegato in avanti, mentre la persona sopra si distendeva con la schiena inarcata. L’obiettivo era quello di creare un forte rilascio di energia, normalmente trattenuta nei blocchi fisici e accompagnato dalla voce. I compagni si sono scelti basandosi su un criterio di ugual corporatura.
Riporto l'esperienza di una delle partecipanti per comprendere l'evoluzione delle attività.
Una compagna, durante l'attività, ha detto all'altra – che mostrava una resistenza a salire sulla schiena della propria compagna – qualcosa che mi ha colpito profondamente: “È una questione di fiducia”. Questa affermazione ha suscitato in lei forti emozioni, poiché ha permesso il riconoscimento di una difficoltà al lasciarsi andare con gli altri e a sviluppare una fiducia genuina. La sensazione di rigidità fisica e il rifiuto di partecipare all'attività, credo, siano stati un riflesso di questa difficoltà nell'affidarsi, che si è manifestata concretamente nel corpo.

La seconda attività in coppia, al contrario, si è rivelata un'esperienza profondamente diversa per quella partecipante, tanto per la posizione che è stato richiesto di assumere, quanto per il fatto che la stesse svolgendo con una persona che già conosceva.
In questa fase dell'esercizio, i compagni sono stati invitati a posizionarsi schiena contro schiena, a spingersi energicamente l’una contro l’altra e a utilizzare la voce in modo potente. La situazione è mutata radicalmente, soprattutto quando Nicola ha compiuto un giro tra di loro, incitandoli a entrare in contatto con la loro Amazzone, facilitando in tal modo la fuoriuscita della loro rabbia interiore.
È stato un momento di grande liberazione. Alcuni membri hanno urlato con forza, al punto da sentire dolore alla gola, ma la sensazione di sollievo che ne è derivata è stata straordinariamente intensa. In quell'istante, hanno potuto percepire chiaramente la loro rabbia e riuscire finalmente a darle voce. Ho colto l’efficacia di un'attività del genere: liberarsi delle emozioni represse, come la rabbia, ma ho anche compreso il ruolo cruciale del conduttore, il quale, con il suo incoraggiamento, ha agevolato l'emergere di quei contenuti emotivi e psicologici che, altrimenti, sarebbero rimasti nascosti ma che hanno diritto di esistenza come ogni contenuto emotivo “positivo”.

Successivamente, ci siamo seduti in cerchio e c'è stato un momento di condivisione. A quel punto, uno dei membri del gruppo, ha deciso di condividere la sua esperienza. Durante il suo intervento, sono emersi aspetti molto personali riguardanti una difficoltà che stava affrontando a livello individuale e che stava cercando di affrontare anche a livello corporeo: la gestione della rabbia nei confronti del partner, una rabbia che spesso si manifestava in comportamenti violenti da parte di lei stessa verso di lui. Da quanto ci ha raccontato, questa rabbia sembrava derivare principalmente dal trattamento denigratorio che riceveva dal compagno.

Il conduttore ha ritenuto opportuno dedicarsi al lavoro con la testimone nella parte finale dell'incontro, entrando così nel vivo dell’attività. Ha iniziato il lavoro con lei facendola sdraiare al centro, chiedendole innanzitutto di concentrarsi su respirazioni molto profonde, vocalizzando forti suoni durante il processo. Noi, seduti attorno a lei, osservavamo in silenzio. Poi, in un crescendo di incoraggiamento, le ha chiesto di colpire con pugni e calci il materassino posto sotto di lei, suggerendole di focalizzarsi sul compagno e sui commenti denigratori che riceveva, invitandola a urlare ad alta voce ciò che avrebbe voluto dirgli.

La giovane donna ha iniziato a esprimere ad alta voce: "Lasciami in pace", "Devi lasciarmi stare", "Voglio essere libera", "Voglio fare le mie scelte". Ha continuato a ripetere queste frasi, ma dopo un po' si è fermata, dicendo di essere stanca. Il terapeuta ha accolto la sua richiesta di pausa, ma successivamente l'ha incitata a riprendere. Questa volta, ha reagito con maggiore energia, emettendo suoni sempre più potenti, finché la situazione è culminata in un pianto liberatorio. Ha continuato a esprimere la sua rabbia fino a quando ha avuto forza fisica per farlo.
In quel momento, osservare la scena mi è risultato estremamente difficile. Il fatto che lei vocalizzasse con tanta intensità ha reso per me quasi insostenibile fisicamente mantenere lo sguardo su di lei. Questa difficoltà non si è espressa solo a livello emotivo, ma si è manifestata anche nel corpo: inizialmente seduta con le gambe incrociate, ho avvertito il bisogno istintivo di raccogliermi su me stessa, portando entrambe le gambe al petto, quasi a contenere fisicamente l’impatto di ciò che stava accadendo davanti a me. Era come se il mio corpo reagisse autonomamente a quella scarica di energia, a quel dolore che si traduceva in un grido liberatorio.
Nicola, riconoscendo la portata emotiva di quel momento, ha invitato le donne che avevano vissuto esperienze simili —il sentirsi oppresse dal partner— a farsi avanti per sostenere la donna sdraiata. Tre di loro si sono avvicinate, ognuna a modo proprio: chi con una presenza silenziosa, chi con parole di incoraggiamento come "È giusto, hai ragione", quasi a legittimare il suo diritto di esprimere quella rabbia repressa. In quel momento, ho trovato la forza di guardare di nuovo.

Quello che stava accadendo davanti ai miei occhi aveva un’intensità rara: era un'espressione pura di solidarietà femminile, un’energia ancestrale che attraversava i corpi e le voci di quelle donne. Poche volte nella mia vita ho percepito con tanta chiarezza un senso di forza collettiva femminile, una potenza quasi archetipica che trascendeva le storie individuali e si manifestava nella condivisione di un’esperienza comune.
Il processo è poi proseguito con un ulteriore atto simbolico: il terapeuta ha preso un bastone e ha chiesto alla partecipante protagonista di afferrarlo e di spingere con tutta la sua forza, mentre lui resisteva. Durante questo sforzo fisico, le ha chiesto di continuare a urlare, di dare voce a quel grido interiore, sostenendola costantemente con parole di incoraggiamento. Questo atto aveva un significato profondo: pareva la rappresentazione fisica di un conflitto interiore e relazionale, il tentativo di ribellarsi a un peso che l’aveva schiacciata per troppo tempo.

Quando lui le ha chiesto di scegliere due persone dal gruppo e di spiegare il motivo della scelta, ella ha riflettuto su cosa ognuna di loro le trasmettesse. Poi, proseguendo nell'introspezione, ha espresso il desiderio di coinvolgere tutte le donne presenti. Così, una dopo l’altra, ci siamo prese per mano e abbiamo formato un cerchio attorno a lei.
Nicola ci ha chiesto di esprimere qualcosa che ci rappresentasse come donne. Le parole che emergevano erano potenti nella loro autenticità: "Io sono fragile", "Io sono forte", "Io sono disponibile", "Io sono vulnerabile". Quello che accadeva in quel momento non era solo una dichiarazione individuale, ma la costruzione di una narrazione collettiva della femminilità nelle sue molteplici sfaccettature. Ci stavamo concedendo il diritto di essere tutto: forti e fragili, accoglienti e rabbiose, solide e vulnerabili. Era un atto di riconciliazione con noi stesse e con il nostro sentire più autentico.

L’intensità dell’esperienza ha raggiunto un nuovo apice quando agli uomini è stato chiesto di avvicinarsi e formare un cerchio attorno alle donne presenti, mentre continuavano a pronunciare le qualità che le rappresentavano. Sentire la loro presenza, percepire i loro sguardi sulle donne in cerchio mentre dichiaravano la loro identità femminile, ha reso il momento ancora più potente. Non c’era competizione, non c’era contrapposizione: c’era riconoscimento reciproco. Il cerchio maschile che racchiudeva quello femminile sembrava evocare un bisogno profondo di equilibrio e di ascolto tra i due poli dell’energia umana. In quel momento, si è creato uno spazio di accoglienza, di rispetto e di presenza condivisa.

Quando ci siamo sedute, abbiamo iniziato a restituire alla testimone protagonista ciò che avevamo percepito di lei: forte, motivata, decisa, vulnerabile. Gli uomini, ancora dietro di noi, ascoltavano in silenzio, testimoni di quell’onda emotiva che aveva attraversato il gruppo. Alla fine, ci siamo riuniti in un unico cerchio, e anche gli uomini hanno condiviso il loro vissuto.
La Core Energetica, in questo contesto, si è rivelata uno strumento potente di accesso e trasformazione emotiva. Il lavoro corporeo non è stato solo un mezzo per esprimere le emozioni, ma un vero e proprio canale per rielaborarle e integrarle. La rabbia, in particolare, è stata accolta e legittimata non come un elemento distruttivo, ma come una forza vitale da riconoscere e canalizzare. Il processo di gruppo ha amplificato questa esperienza, offrendo un contenitore sicuro in cui ogni espressione emotiva poteva essere sostenuta e risignificata.

L’interazione tra il cerchio femminile e quello maschile ha evidenziato un aspetto fondamentale: la necessità di un dialogo autentico tra le energie maschili e femminili, all’interno di ogni individuo e nelle relazioni. Non si trattava solo di una rappresentazione simbolica, ma di un momento reale di connessione, in cui le differenze non erano vissute come barriere, ma come elementi complementari di un’unità più ampia.
Questa esperienza mi ha lasciato con molte domande e riflessioni. Quanto siamo abituati a trattenere le nostre emozioni per paura del giudizio? Quanto il corpo può essere un alleato nel processo di trasformazione interiore? E soprattutto, quanto è importante creare spazi sicuri dove le persone possano concedersi di sentire e di esprimere ciò che, troppo spesso, resta intrappolato dentro di loro?
Quello che è accaduto in quel cerchio è stato molto più di un esercizio di espressione corporea: è stata una testimonianza tangibile della potenza della condivisione, della trasformazione e della guarigione attraverso il corpo e la relazione.
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