"Il carattere é il frutto dell’esperienza esistenziale, ovvero di una relazione tra il bambino e il suo ambiente che si è fatta difficile o problematica”.
Un particolare modello di comportamento e di relazione sorto in risposta all’ambiente e messo in atto con frequenza costante, un modo peculiare e tutto sommato stabile di guardare a sé, agli altri e al mondo, di vivere ed esprimere emozioni e sentimenti, una particolare configurazione corporea riconoscibile “a vista” viene definita con il nome di difesa caratteriale.
Questa premessa ci conduce a comprendere che il nostro carattere rappresenta il nostro attuale, stabile e specifico modo di vivere: esso esprime il nostro passato e abbiamo impiegato anni a formarlo, ragion per la quale non è agevole né modificarlo, né distinguerlo dal nostro vero sé. Il carattere sta infatti al sé, come l’adeguatezza o l’apparenza stanno all’autenticità.
Quindi il carattere è la parte più esterna e immediatamente visibile della nostra personalità, quella in cui normalmente ci identifichiamo, anche se si tratta di un’identificazione per lo più apparente e non sempre genuina, tanto da non consentire agli altri di conoscerci veramente cosa che, sovente, non desideriamo nemmeno che avvenga.
Il carattere che indossiamo è come un abito confezionato su misura e rappresenta la nostra migliore soluzione possibile per affrontare la vita: la sola alternativa che siamo riusciti ad adottare di fronte alle condizioni ambientali più avverse o improponibili del nostro passato, in specie quando eravamo piccoli.
Dato che si forma a partire dalla circostanze dell’infanzia e permette il rovesciamento di una serie di situazioni di difficoltà o di dipendenza in condizioni più sicure o di accettabile sopravvivenza (talvolta anche di potere e “soddisfazione”), esso tende, proprio in virtù di questo suo stesso successo, a cristallizzarsi e imporsi definitivamente, diventando un progetto senza scadenza.
Il nostro carattere, nonostante la sua virtuosa affermazione, rappresenta tuttavia il nostro modo di vivere il presente secondo prospettive che erano legate al passato e ciò ne fa il suo paradosso poiché, per per certi aspetti, il carattere ci costringe a “rimettere in scena” il passato stesso e a vedere il “qui e ora”, con gli occhi, non sempre accurati, del “la e allora”.
Per tale ragione il carattere può essere considerato una sorta di “mancata verità nei confronti di noi stessi”, poiché pur potendo oggi vivere con meno ripari di una volta, lo teniamo ancora in vita senza preoccuparci di “aggiornarlo”.
La nostra resistenza a modificare il nostro carattere è nota: anche quando sarebbe possibile farlo, ovvero anche quando mutano le condizioni esistenziali che ne hanno richiesto la costituzione.
Questo accade perché modificare il nostro carattere implica l’obbligo di ripercorrere le motivazioni e le criticità che ne stanno all’origine: e quanto di noi hanno voglia di rimettere le mani in pasta?
Tutti, non possiamo nascondercelo, desideriamo cambiare, ovvero migliorare il nostro modo di stare al mondo e spesso ci sentiamo dire dai nostri cari: “che brutto carattere che hai! Devi cambiarlo”.
Non che il loro sia migliore del nostro, ciononostante mettiamo tutti una sottile opposizione a cambiare, benché ne avvertiamo il desiderio, perché sappiamo che cambiare costa fatica, significa mettersi in gioco e non ci sono pillole, manuali, né “nuvolette spirituali” su cui possiamo comodamente sederci perché questo avvenga.
Insomma, che brutto carattere che abbiamo: desideriamo cambiare, ma senza cambiare!
Perciò, benché tutti possediamo una naturale aspirazione alla crescita evolutiva,- Carl Rogers, il grande padre della Psicologia Umanistica ce lo ha ricordato parlandoci della nostra tendenza attualizzante e della presenza dentro di noi di vere e genuine capacità attive e di auto-risposta, il nostro carattere tende a mettersi di mezzo e porsi come un ostacolo alla nostra crescita evolutiva.
Un bambino indolente, capriccioso, oppure arrabbiato o intimorito dentro di noi si impunta per farci rimanere come siamo.
Semmai pretende che questo cambiamento arrivi dall’esterno: visto che qualcuno ha fatto il danno, qualcuno deve riparare!
Purtroppo verso quel tipo di danni, non c'era polizza di assicurazione, siamo obbligati, se è nostro vivo desiderio cambiare, rimediare in proprio.
Gli adattamenti infantili, ovvero i primi flessibili schemi difensivi sorti per garantire un’accettabile sopravvivenza nelle diverse fasi dello sviluppo, sono stati nel corso del tempo definitivamente rimpiazzati da blocchi e difese specifiche, tenaci e resistenti al cambiamento.
Questo é il nostro carattere.
Il carattere non é dunque trasformabile se non in minima misura: può tuttavia essere aggiornato e ottimizzato secondo le nuove circostanze della vita adulta.
Circostanza che, una volta realizzata, può diventare per noi fonte di benessere e felicità.
Si assiste in tal caso a un rovesciamento di significati e obiettivi: il carattere sorto per porre argine e difesa contro l’ambiente (interno ed esterno), diventa al contempo stile specifico e risorsa creativa per affrontare al meglio l’esistenza matura.
Non esiste un solo carattere, noi ne abbiamo tanti addosso, tanti abiti, buoni per ogni diversa circostanza della vita.
C'è un programma caratteriale fatto per procurarci quello che ci serve di base (cibo, riposo, contatto, protezione, sicurezza, accettazione e amore), un programma per imparare a diventare progressivamente più autonomi e difenderci da chi vuole impedircelo, ce n'è un altro per catturare o non perdere l’attenzione degli altri e un altro ancora per fare le cose nel modo migliore possibile o meglio degli altri, gioendo di riuscirvi.
Solo che non sono stati “upgradati”, ovvero l’ultima “versione” rilasciata, è ancora quella dei primi tempi della vita. Questo é il carattere, anzi i caratteri e ognuno di noi è portatore di tutte queste tipologie, benché alcune siano prevalenti e più riconoscibili in noi rispetto altri.
Nicola Sensale, 2016
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